Origini del Qi Qong Taoista e del Tao Yoga
Il Taoismo sorse sullo stesso terreno culturale in cui nacque il Confucianesimo e si servì degli stessi elementi utilizzati da questo, che formavano il patrimonio intellettuale della Cina della seconda metà del 1° millennio a.C.
Ma mentre il Confucianesimo ne dedusse dei modelli da imitare per ritornare alle virtù morali degli antichi re “santi”, il Taoismo li sottopose ad aspra critica, additando nei portatori di quelle virtù i corruttori della primigenia virtù del Tao, fatta di naturalezza e spontaneità.
D’altro canto, essendo Lao Tzu e Confucio contemporanei, la medesima situazione storica di decadenza della dinastia Chou (che regnava ormai da sei secoli ed aveva perduto lo slancio riformatore dei primi sovrani), spingeva i due capiscuola ad evocare i tempi aurei in cui vigeva la semplicità del Tao, per Lao Tzu, o la carità e la giustizia dei santi imperatori, per Confucio.
Bisogna ammettere però che i concetti che troviamo alla base del Taoismo e del Confucianesimo preesistevano ai fondatori delle due scuole, i quali non fecero che elaborarli e fissarli in un corpo di dottrine: Lao Tzu con lo scritto, Confucio con l’insegnamento.
La tradizione ci dice che Lao Tzu (o Lao Tze) – che è in realtà un soprannome che vuol dire “vecchio maestro” -, si chiamava Chung-Erh o Po-Yang o anche Lao Tan.
Visse nel 6° secolo a.C. ed era di qualche anno più vecchio di Confucio.
Nacque nel villaggio di Ch’u-Jen, nel territorio dell’odierno Honan (Cina orientale, a sud di Pechino).
Fu storiografo negli archivi imperiali.
Si dice che Confucio si sarebbe incontrato con lui e sarebbe stato colpito dalla sua saggezza.
Lao Tzu abbandonò il suo incarico quando la corta cominciò a dare segni di decadenza e se ne andò verso l’ovest.
Arrivato al passo di Han-Ku, il guardiano Yin Hsi gli chiese di scrivere un libro per lui e Lao Tzu espose allora le sue dottrine nel Tao Te Ching.
Poi partì e non se ne seppe più nulla.
L’opera di Lao Tzu è divisa in due parti, la prima sul Tao e la seconda sul Te.
In seguito fu suddivisa nel numero mistico di 81 capitoletti, e il nome di Tao Te Ching fu dato, sembra, da uno dei suoi commentatori, Ho-Shang Kung.
L’opera ci è anche giunta in un’altra redazione, non molto diversa dalla prima, curata da Wang Pi.
Il libro si apre con una descrizione del Tao.
La parola significa propriamente via e quindi anche modo di condursi, sistema.
Il Tao è una astrazione metafisica che indica la legge universale della natura, lo spontaneo modo di essere e di comportarsi dell’universo.
In questo senso è indicibile, ineffabile, indeterminato.
Essendo il principio primo e assoluto, è privo di caratteristiche, giacché è la stessa fonte di tutte le caratteristiche; non è però il nulla, dato che è l’origine di ogni cosa.
Esso è prima di tutte le cose, dà loro l’esistenza.
“Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome” (In cinese suona più o meno così: Tao ke Tao fei chang Tao; ming ke ming, fei chang ming: cfr. Tao Te Ching, 1).
In altri termini, il Tao è oltre ogni denominazione, visto che la fonte da cui tutto deriva non può essere nominata, costituendo l’origine dei nomi e di ogni descrizione possibile.
Tao è quindi un non-nome; indica, piuttosto, ciò che consente alle cose di essere quello che sono; è ciò che dà loro l’esistenza (come se si dicesse: il questo da cui derivano l’essere e il non essere).
Sebbene non si possa dire ciò che il Tao è, ma si possa soltanto accennarlo, lo si può in un certo modo comprendere considerando il suo “funzionamento”, le sue manifestazioni.
Il Tao si manifesta nell’universo, nella natura, dato che ciò che le cose individuale possiedono del Tao è il Te.
La parola Te, tradotta il genere con virtù, non ha un significato strettamente morale bensì quello di vigore, potenza, facoltà, efficacia.
È in pratica la manifestazione del Tao, come già accennato. Il Tao, in quanto origine, fonte, sorgente, dà l’esistenza alle cose, mentre il Te dà loro diversità.
Tutte le cose esistono nel Tao e il Tao è presente in tutte le cose.
Finché le cose avvengono naturalmente, tutto è armonico e nulla turba l’equilibrio cosmico.
L’uomo, se vuole vivere felice, deve seguire il Tao senza ostacolarlo.
In questo senso, egli non deve agire, nel senso che non deve modificare l’armonia dell’universo.
Se lo fa, allora non è più in accordo col Tao.
Il principio della inazione (wu wei) non indica quindi il rimanere ozioso, senza far nulla, ma è piuttosto basato sul riconoscimento che l’uomo non è la misura e la sorgente di tutte le cose, ma lo è soltanto il Tao.
La vita è vissuta bene solo quando l’uomo è in completa armonia con tutto l’universo e la sua azione è l’azione dell’universo che fluisce attraverso di lui.
Il bene non viene compiuto dall’azione spinta dai desideri, ma dalla inazione (wu wei) che è ispirata alla semplicità del Tao.
“Il Tao in eterno non agisce eppure non c’è nulla che non sia fatto. Se chi governa si attenesse ai suoi principi, gli esseri si svilupperebbero da soli. Se durante questo sviluppo crescesse il desiderio, basterà risvegliare in essi l’originaria semplicità di quello che non ha nome. La semplicità del senza-nome genera l’assenza del desiderio; l’assenza del desiderio genera la serenità, così l’impero si consolida da solo” (TTC, 37).
Il problema riguarda dunque il modo in cui si dovrebbe agire.
La risposta è che si dovrebbe agire adottando la semplice via del Tao, non imponendo i proprio desideri al mondo ma seguendo la natura stessa.
L’uomo deve conoscere le leggi che regolano i mutamenti delle cose per confermarsi ad esse; conoscendo tali leggi, l’uomo si renderà conto che è vano perseguire un fine diverso, poiché ogni cosa segue il proprio sviluppo, la propria intima legge.
L’uomo deve liberarsi da ogni pensiero, passione, interesse, desiderio particolare per ritornare alla semplicità di quando era bambino; egli deve fare solo ciò che è necessario e naturale.
Vivere semplicemente vuol dire vivere una vita in cui è ignorato il profitto, lasciata da parte la scaltrezza, minimizzato l’egoismo, ridotti i desideri.
Non bisogna cioè agire con artifici e deformazioni ma lasciare che le cose si compiano in modo spontaneo e naturale.
Anche in ambito sociale, le istituzioni sono giuste quando si permette loro di essere ciò che sono naturalmente; anche la società deve essere in armonia con l’universo.
Se il legislatore si attenesse alle norme del Tao, il governo procederebbe in modo spontaneo e naturale.
E non ci sarebbe bisogno di leggi severe e di guerre.
Quando si governa un paese, si dovrebbe badare a non opprimere troppo la gente, portandola a ribellarsi.
Quando invece le persone sono soddisfatte non ci sono guerre e ribellioni.
Perciò la semplice norma del governare consiste nel dare al popolo ciò che vuole, e nel rendere il governo conforme alla volontà del popolo, piuttosto che tentare di rendere il popolo conforme alla volontà di chi governa.
Il lavoro di chi governa è quello di lasciare che il Tao operi liberamente, invece di tentare di opporsi alla sua funzione e di cambiarla.
Così, chi vuole governare con l’aiuto del Tao, è avvisato di non fare uso di forza o violenza, poiché ciò finisce per determinare un rovesciamento.
“Colui che assiste il principe col Tao non fortifica l’impero con le armi…tutto ciò che è contrario al Tao non può durare”.
Quando chi governa conosce il Tao e il suo Te, da in che modo deve starsene al di fuori della vita del popolo e servirlo senza intromettersi.
Così Lao Tzu dice che le persone “sono difficile da governare poiché chi governa agisce troppo”.
“Più leggi e divieti ci sono nel mondo, più povero sarà il popolo… più si emanano leggi e decreti, più ci saranno ladri e predoni” (TTC, 57).
Eliminando i desideri e lasciando che il Tao entri e ci pervada, la vita supererà le distinzioni tra buono e cattivo.
Ogni attività verrà dal Tao, e l’uomo diventerà uno col mondo.
Questa è la soluzione di Lao Tzu al problema della felicità.
È una soluzione che dipende soprattutto dal raggiungimento dell’unità col grande principio immanente della realtà, ed è perciò, in questo senso, una soluzione mistica.
Nei secoli a cavallo dell’era volgare, i seguaci del Taoismo si dedicarono soprattutto alla speculazione metafisica e in particolare sul problema della morte e della immortalità.
Nacque così una forma di religione taoista, che assunse ben presto aspetti istituzionali e che ebbe, sotto la dinastia dei Tang (620-906 d.C.), una enorme diffusione, pari al buddhismo.
Il pensiero cinese delle origini non aveva elaborato una dottrina (come era successo in Grecia e nel Cristianesimo) che rispondesse al problema del destino dell’uomo dopo la morte.
L’uomo cinese si vedeva solamente mortale.
Da qui sorse la convinzione che l’immortalità fosse una sorta di conquista, da ottenere attraverso modalità per lo meno singolari.
Il problema era appunto quello di far diventare il corpo umano immortale.
Già da tempo erano stati codificati dei metodi per prolungare la vita e permettere una sorta di immortalità.
Questi metodi si dividono in due gruppi: le pratiche per nutrire lo spirito e le pratiche per nutrire la vita o il corpo.
Dal taoismo mistico al Qi Qong e Tao Yoga alchemico.
I maestri del Tao si erano accorti già dall’inizio in realtà che corpo e spirito, mente e energia costituivano un fondamentale anello di congiunzione e un sostegno reciproco.
Da questi presupposti si svilupparono già anticamente metodologie straordinarie e sofisticatissime per aiutare il singolo ricercatore o comunità a seguire la via nelle migliori condizioni spirituali, fisiche e mentali.
Le pratiche per nutrire lo spirito si riferiscono naturalmente all’esercizio delle virtù morali, cioè la purezza di vita, il riconoscimento e il pentimento delle proprie colpe e il compimento delle buone azioni meritorie.
Le pratiche per nutrire la vita o il corpo sono invece di ordine dietetico, respiratorio, sessuale e alchimistico.
La pratica dietetica consiste nell’astensione dai cosiddetti cinque cereali, perché di essi si nutrono i tre demoni (San Shih) che risiedono nel corpo umano e sono avversi all’uomo.
L’astensione da quegli alimenti mira a liberare l’uomo dalla loro presenza, facendoli morire di inedia.
Un’altra pratica molto importante è quella della respirazione controllata.
Secondo le antiche tradizioni, il ch’i è il soffio vitale che permea l’universo.
La pratica respiratoria tende ad immettere nel corpo il ch’i più sottile affinché lo nutra e piano piano elimini la parte densa e impura, portandolo alla stessa sottigliezza e purezza del cielo immortale.
La pratica sessuale consiste essenzialmente nella ritenzione del seme maschile: l’orgasmo dovrebbe essere ripetuto più volte e con diverse compagne, senza però lasciar sfuggire il ching maschile, in modo che torni indietro e si diffonda nell’organismo dove, unendosi al ch’i, darebbe nascita al corpo immortale.
La pratica invece più difficile, dispendiosa e misteriosa, consisteva nell’ingerire, dopo una lunga preparazione alchimistica, il cinabro (solfuro di mercurio), che provocherebbe di per sé l’immortalità.
Come si vede, siamo ormai lontani dall’autentico Taoismo, che comunque fu importante perché fu la risposta a molteplici interrogativi spirituali.
Inoltre non si dimentichi che, in campo politico, con la credenza messianica in una società migliore, molte furono le rivolte contadine che ebbero i loro capi in persone che si ispiravano al Taoismo.
In campo artistico, il Taoismo, concedendo assoluta libertà all’individuo, permise la creazione di opere d’arte concepite per il godimento del letterato e del pittore e non, come volevano i confuciani, in esclusiva funzione di un certo tipo di società.
In ultimo, la donna, che nella Cina confuciana e feudale era relegata a vivere all’interno della sua abitazione, acquisterà col Taoismo una certa parità con l’uomo, al punto di poter accedere anche a certi gradi della gerarchia religiosa taoista.
Oggi il Taoismo è diffuso nelle comunità cinesi sparse per il mondo, ed in particolare a Taiwan, Vietnam e Singapore.
Testo tratto da testo di Ernesto Riva